È stata un’antropologa culturale
di rilevanza internazionale
Amalia Signorelli è stata un’antropologa culturale di rilevanza internazionale. Era nata a Roma il 6 agosto 1934.
La folgorazione nei confronti dell’antropologia la ebbe quando seguì per la prima volta una lezione di Ernesto De Martino, del quale divenne l’erede naturale. In seguito il suo approccio alla materia si connotò sempre di più con la necessità dell’aderenza al reale, al contemporaneo. Impegnata da sempre nella società civile anche durante l’insegnamento universitario. Per vezzo negli ultimi anni della sua vita ha accettato inviti in programmi televisivi per dire il suo – affilato e gentile – punto di vista.
E’ morta il 25 ottobre 2017.
L’ultimo articolo al quale avrebbe voluto lavorare riguardava il ‘sistema’ statale di protezione alla maternità, storicamente sbilanciato a sfavore della donna e della dimensione materna, tutto teso alla procreazione soltanto per far nascere ulteriore forza lavoro e non per garantire la vicinanza e il rapporto madre-figlia, o figlio. Avrebbe dovuto scriverlo per il mensile Millennium, sul quale aveva una rubrica che aveva intitolata “Non concilio” , aveva saltato già due numeri e non voleva saltare anche il terzo ma le forze, Amalia, non se le ritrovava più.
Colpa del cuore, funzionava male e comprometteva tutto. Controvoglia si sottoponeva a estenuanti analisi dalle quali risultava mai nulla di definitivo o risolvibile, la bestia nera da affrontare era la vecchiaia malata, condizione che proprio non le andava di vivere: “dimentico le cose, mi sto scimunendo”. Non ci si ritrovava.
Noi ci siamo trovate con una telefonata. Volevo confrontarmi con lei su una idea che mi frullava in testa, stava finendo l’ultimo suo libro, La vita al tempo della crisi con Einaudi, ci demmo appuntamento dopo una settimana nella sua casa in via Cassia. Da allora ci siamo viste più di una volta a settimana, ci sentivamo quasi ogni giorno per parlare e lavorare all’idea che è diventata un progetto, lei seduta sulla sua poltrona ecrù e sempre venivamo interrotte dalla telefonata di una qualche trasmissione televisiva che l’invitava in studio. Era richiesta, lei ci andava ma negli ultimi tempi rifiutava non solo per questioni di salute. Non sopportava più la superficialità.
Capace di sacrificarsi trasferendosi per esempio a Cosenza dopo il matrimonio e lavorando come insegnante nelle scuole medie ma capace anche di lasciare la Calabria e il marito e di tornare a Roma, da sola con i tre figli Sebastiano, Mario e Dina. In grado di ristabilire l’unità familiare e di portarla avanti per anni con senso di responsabilità, e di trovare poi la forza di mollarla per andare incontro a quel fare cultura tra il vitale e l’utile che l’ha caratterizzata; nella sua materia si dice ethos del trascendimento. Era capace di una chiarezza disarmante. Era feroce quando era il caso, e anche voce di velluto, parole d’acciaio. Non per nulla alla Università Federico II di Napoli, dove ha insegnato, fu nominata “docente più chiara”. Era una miniera inesauribile.
Da così lontano vengono, e così consapevoli sono state le sue scelte, approfondendo temi poi assolutamente lontani da quelli di De Martino, ossia le migrazioni, il clientelismo, la condizione femminile, le culture urbane, l’edilizia sociale, utilizzando sistematicamente i criteri di una visione del mondo intelligente, spaziosa. E passionale. Bisognerebbe, oltre che dare almeno un’occhiata ai suoi quindici e passa libri, e uno in particolare lo considerava più attuale di tutti, per quanto del 1983, edito a Napoli da Liguori, Chi può e chi aspetta, ascoltare i suoi interventi come consigliera proprio al Comune di Napoli all’inizio degli anni Novanta. In Consiglio si dibatteva il famigerato “Preliminare di Piano”.
“La solita vecchia consuetudine di adottare delle mode internazionali, con qualche ritardo cronologico non privo di rilievo. Ci vogliamo chiedere che cos’è la vita sociale in questa città?”
Quell’articolo che Amalia avrebbe dovuto scrivere, il suo ultimo, è rimasto a metà, intrappolato nel suo computer. Alcuni giornali l’hanno ricordata, dopo la morte, come “l’antropologa della tivvù”, lei che intendeva l’antropologia come disciplina di lungo soggiorno sul campo, anche se il campo è la portineria del condominio.
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